Il segretario del Pd, per il suo stesso ruolo, è un riferimento importante per la parte (non piccola) di italiani che si sente di sinistra. Dunque anche per molti dei lettori di questo giornale. Proprio per questo mi ha molto colpito, nell’irritato post su Facebook contro Concita De Gregorio e il suo articolo su Repubblica , che Nicola Zingaretti abbia usato il termine “radical chic”.
Quel termine non aveva alcuna attinenza con l’articolo di De Gregorio (tra l’altro molto più severo con Renzi che con l’attuale reggenza del Pd) e nemmeno con la sua autrice, che lavora da una vita nell’ambito, un tempo molto pop, oggi comunque legato al senso comune del Paese, del giornalismo quotidiano. È stata direttrice dell’ Unità , non di Ville&Casali .
Ma soprattutto quel termine, che nel breve testo di Zingaretti suona come il vero capo d’imputazione, è schiettamente di destra. Da molti anni è largamente e impropriamente usato dalla destra — politici e giornalisti — per bollare di snobismo, di irrealismo, di classismo malcelato, chiunque abbia da obiettare qualcosa alla demagogia populista, sia esso un professore di liceo che difende la consecutio temporum o una comandante di nave che soccorre i migranti o un elettore urbano che vota secondo urbanità. Qualunque buona causa, secondo questa lettura rozza (e falsificante), è solo il vezzo ipocrita di persone viziate e annoiate. Anche una cosa un tempo considerata iper-popolare come la democrazia, secondo gli assalitori di Capitol Hill, è un inganno dell’establishment. È radical chic.
Inventato mezzo secolo fa in un contesto molto specifico (la Manhattan degli artisti che flirtava, per moda, con l’estremismo delle Pantere Nere) dallo scrittore dandy Tom Wolfe (che era molto più snob dei suoi bersagli: ma questo è un altro discorso), il termine è diventato poi uno dei più abusati luoghi comuni, la classica arma spuntata, un blabla in mezzo a tanti. Non per caso lo usano a raffica i leghisti, che adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre. È un poco come quando la sinistra, nei tempi ormai molto remoti della sua egemonia culturale, amava dare del “qualunquista” o del “fascista” a chiunque non appartenesse al proprio giro.
Nel momento in cui anche il capo della sinistra italiana bolla di radical chic una giornalista anch’essa di sinistra, viene dunque da chiedersi: ma dove sono finite le parole “di sinistra”? La celebre invocazione di Nanni Moretti (D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!) è del 1998. Sono passati più di vent’anni: è una generazione. Molte delle parole vecchie, si sa, sono state ingoiate dalla storia, che le ha ruminate fino a farle sparire. Padroni e proletariato, per esempio, hanno un suono otto-novecentesco che le rende quasi impronunciabili, e anche se il loro oggetto (il dominio del capitale sulle persone) è palesemente ancora in essere, non le si usa più per le stesse ragioni per le quali non si portano più le ghette, o non si arano più i campi con i buoi. Il tempo passa e ci rimette in riga, come è normale che sia.
Sono le parole nuove che evidentemente difettano, a sinistra, tanto che il linguaggio della destra ha un visibile, anzi udibile sopravvento nel discorso pubblico.
La sconfitta culturale della sinistra è perfettamente leggibile in questa lenta, inesorabile sottomissione, che sia ben chiaro non riguarda solo il Pd e il suo segretario, riguarda il grande corpo della sinistra nel suo complesso, compresi giornali e giornalisti.
E dire che di lavoro da fare ce ne sarebbe molto, anche se risalendo la corrente come i salmoni. Cominciando con una generale restituzione di senso alle parole, a ciascuna parola: operazione che, mi rendo conto, renderebbe quasi impossibile il lavoro dei vari staff social, nonché dei digitatori in proprio, perché la velocità compulsiva è nemica delle parole. (Se qualcuno avesse avuto il tempo di rileggere quel post di Zingaretti, magari lo stesso Zingaretti, avrebbe avuto il tempo di pensare: radical chic lo dicono Salvini, Feltri e Belpietro, dunque è meglio cercare un’altra parola).
Eppure si può fare. Coraggio, si può fare. Per finire con una nota di ottimismo, un solo esempio: quando il Pd oppone allo slogan “dalla parte degli italiani” lo slogan “dalla parte delle persone”, fa e dice una cosa di sinistra.
Basta una parola per cambiare significato a una intera politica. E non è che non lo si nota: lo si nota. Non è che non lo si capisce: lo si capisce. E ci si sente meglio rappresentati. Ci si sente un poco meno soli, che in questo momento è davvero una cosa di sinistra.
la Repubblica, 2 febbraio 2021
2 Comments
Caro Sergio,
eppure il nostro segretario, che dirige un Partito riformista che teme le riforme, dovrebbe sapere che sono proprio i cosiddetti radical chic a tenere in piedi il Partito, per lo meno in gran parte. Ormai lo sappiamo che la base sociale degli elettori PD è profondamente cambiata, tra scissioni e fughe nei 5 Stelle, e le astensioni raccolgono molti di quelli che potrebbero essere voti per una sinistra credibile. Quello che era considerato lo zoccolo duro si sta assottigliando, e diminuirà sempre di più, se non si corre ai ripari, a meno che non sia proprio questo l’obiettivo finale, trasformarlo cioè nel mitico ago della bilancia, e si salvi chi può. E se mancano le parole di sinistra, come dice Serra, da contrapporre alle parole rozze della destra, è perché mancano le idee di sinistra, quelle vere, che scaldano, che sanificano, idee che rendono quelle parole necessarie, per poterle esprimere, al di fuori di ogni retorica.
Leggo adesso dell’incarico a Draghi. Qualcuno può giustamente cantare vittoria, ma non dirò chi …
Ti abbraccio
Grazia
“Radical chic” dovrebbe far pari con
” ologramma che sorride e sparisce”, invece non è così. I giornalisti possono offendere quotidianamente il mondo ed in particolare i politici e quest’ultimi non devono reagire. Poi sui giornali si cercano
” i poteri forti” escludendo dagli esaminati i ricercatori che hanno anche il diritto di non rilevare i nomi degli autori di crimini palesi da loro stessi rilevati. A sentire gli autori della carta stampata e non, loro hanno tutte le soluzioni per risolvere i problemi della nostra società. Peccato che non provano mai a risolverne uno. Ad esempio arrestare l’estinzione dei giornali. Invece no: quando un giornale fallisce la colpa è del politico di turno o dell’editore e mai della direttrice o direttore dello stesso. Non solo ma, quando uno di quest’ultimi entra in politica per realizzare le proprie idee con l’ aiuto delle “truppe cammellate” di quei partiti che loro criticano, i risultati ottenuti, nella maggior parte dei casi sono uguali a zero. Che fine ha fatto l’ex direttore del settimanale “l’Epresso” votato dal popolo del PD? Mi fermo qui. La critica non è ammessa alla suddetta categoria, in particolare alle loro cariche massime, che ci ammorbano con le loro critiche tutti i giorni da anni senza mai assumersi una piccola colpa. Abbiamo una sola possibilità noi lettori generici: non leggere i loro
” editoriali”. Io da anni non compro più un giornale, ma negli anni settanta, da giovane, ne acquistavo almeno tre ( uno di destra, di sinistra e di centro, inteso come orientamento politico).
Sapete perché non voglio più leggere questi giornalisti “santoni mummificati”? Potrei rispondere: lo so,ma non lo dico, invece lo confesso. Non leggo più i giornali perché mi caricavano di odio e non mi aiutavano a risolvere i problemi che incontravo ed incontro nella vita,
Preferisco provare a risolvere i problemi della comunità in cui vivo che non interessano ai giornalisti in cerca solo di scoop. In sostanza faccio anch’io politica attiva con la mia associazione di volontariato denominata
” comitato bicocca ” commettendo anche degli errori, La società degli esseri umani devi dire Grazie alla politica se vive ed avanza, checche ne dicano e sparlino “i santoni giornalisti”.
Buona giornata a coloro che mi leggono ed anche ai giornalisti che non lo fanno. Antonio De Matteo MI